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Intercettare per tempo il paziente con cirrosi migliora il percorso di cura

Cirrosi, se vogliamo ampliare i percorsi di screening dell’epatopatia cronica e creare network di una rete che sappia crescere di livello e di complessità dobbiamo aumentare le competenze epatologiche in Italia.

Bisogna identificare per tempo il paziente con la cirrosi epatica e non aspettare che si presenti con le conseguenze gravi e tardive quali lo scompenso ascitico, l’encefalopatia epatica, le emorragie esofagee, l’epatocarcinoma. Non dobbiamo aspettare. Questa è la premessa prima di poter parlare del percorso di presa in carico del paziente cirrotico.

Questi pazienti devono essere presi in carico quando hanno una cirrosi ancora compensata e messi in follow up, in modo da poter interferire sui fattori di rischio ancora presenti con un percorso educazionale alimentare, un percorso di attività motoria, l’utilizzo di farmaci che possano ridurre l’insulino resistenza e, se del caso, curare le infezioni virali non trattate in precedenza, quali l’epatite B e l’epatite C. È necessario mettere in atto una serie di interventi che prevengano le conseguenze avanzate della cirrosi epatica.

Oggi però ci sono ancora degli ostacoli.
Il primo grosso limite è che il fegato ha un margine di riserva funzionale dell’80%, riesce cioè a funzionare bene anche quando è già fortemente compromesso, questo porta il paziente a non identificare per tempo i sintomi della cirrosi.

Da parte di diversi medici poi esiste ancora la convinzione che quando si sviluppa la malattia epatica evoluta non ci siano risolutive possibilità di cura.
Credo che manchi ancora una strategia per prendere in carico alcune patologie epatiche, per esempio la steatoepatite non alcolica, di cui sono affetti un numero di pazienti non indifferente, poiché la programmazione sanitaria oggi non riesce a dare ancora delle risposte tempestive.
Per studiare il fegato poi l’esame cardine è l’ecografia, ma nel fegato cirrotico tale tecnica è alquanto difficile e non molti ecografisti hanno una sufficiente esperienza specifica, senza contare che in Italia non c’è un ugual numero di ecografisti esperti quanti sono, ad esempio, gli endoscopisti in grado di identificare un polipo nel colon.

E infine i centri periferici si sentono spesso isolati e non sanno a chi rivolgersi per gestire il paziente in maniera rapida. La rete rappresenta la possibilità di creare percorsi teorici ma anche pratici con canali di accesso, in questo modo la presa in carico può avvenire in qualunque nodo della rete e arrivare al nucleo più elevato di complessità. La sfida è dunque cominciare a costruire questi percorsi.

Se vogliamo ampliare sia i percorsi di screening dell’epatopatia cronica per intercettare in tempo i pazienti, sia creare network di una rete che sappia crescere di livello e di complessità, dobbiamo aumentare le competenze epatologiche in Italia.

Sono convinto, infine, che la presa in cura e in carico del paziente non può più essere del singolo specialista o reparto o della singola struttura, ma ci vuole un approccio multidisciplinare.

La multidisciplinarietà deve coinvolgere il territorio quindi il medico di medicina generale e l’infermiere. Per fortuna in alcune realtà italiane questi percorsi sono in atto, ma ahimè sono spesso lasciati alla volontà o meno di una organizzazione territoriale spot.

Se identificassimo percorsi condivisi di gestione ambulatoriale e domiciliare del paziente cirrotico credo che si limiterebbero in modo importante il numero dei ricoveri ospedalieri, con i rischi possibili dell’ospedalizzazione e i costi elevati per il servizio sanitario nazionale.

Le volete sfogliare il numero dedicato alla cirrosi epatica, seguite questo link.

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